lunedì 3 settembre 2007

Il Guardiano della Soglia












...oltre la catena serrata

di monti altissimi

che nasconde all'occhio umano

la Città di Dio”

Giuliano Kremmerz









Tornai stanco della giornata appena conclusa e il rassicurante rumore della porta di casa che si chiudeva dietro di me metteva in qualche modo una ferma barriera tra quello che era la frenesia in un certo modo assurda del mondo di fuori e una certa calma, una certa tranquillità che stava diventando il mio, di mondo.


Non accesi la luce, godendomi in penombra il sottile gioco di luci del balugginio della luna sulla pietra bianca delle case e della strada che filtrava dalla finestra del primo piano, ad illuminare debolmente il marmo della scala che lentamente mi accingevo a salire, pregustando già il sonno ristoratore che stavo desiderando appena sceso dall'auto.


Ma tutta questa sensazione di sicurezza parve vacillare quando si affacciò il ricordo di quello che era successo qualche anno addietro, quello che modificò per sempre il mio modo di sentire le cose, di rapportare le emozioni, di districare la rete del mondo.


La notte era come questa, con una luna piena memorabile.


Il tempo, non quello atmosferico, era strano.


Mi sono sempre interessato di “cose strane”, come eravamo soliti chiamare l'Esoterismo. Fino a studiarlo come un esame universitario, come un teorema di matematica.


La percezione del divino con i sensi. La dominazione del potere dell'universo. La tensione verso la vita eterna.


Se non è questa matematica, ditemelo voi.


Forse, più semplicemente, il tentativo di dare una risposta al “senso della vita” da parte di una comitiva di ventenni, poco interessati, in fondo, alle vicende universitarie, decisamente annoiati dalla pochezza del mondo, alla ricerca di una ragione vera, un qualcosa che fosse nettamente diverso da valori che avevano precedentemente distrutto con la dialettica politica, con le teorie sociologiche, con una buona dose di sensibilità.


Non eravamo ragazzi da night, da discoteche, da club esclusivi. Da firme, da simboli, da decapottabili.


Un certo senso morale, un imperativo categorico ce li aveva fatti abbandonare per presto, alla ricerca di qualcosa di più appagante.


Avevamo tagliato così finemente le ombre delle vite dei nostri genitori, delle persone che ci circondavano, per non renderle, alfine, ai nostri occhi, decisamente vuote, decisamente circolari. E non nel senso metafisico.


Ci sentivamo in grado di emulare perfettamente lo stile di vita medioborghese che ci stavano di fatto tramandando o, meglio, che avrebbero voluto volentieri tramandarci, con i suoi tiepidi successi, con le sue mediocri tristezze, con quel senso di sottile insoddisfazione che la nostra sensibilità leggeva nei volti di chi ci viveva intorno.


E non era la nostra vita.


Ora, ognuno di noi si ritrovò quasi contemporaneamente a ricercare (e trovare) un qualche percorso iniziatico, con tutti i dubbi, con tutte le incertezze che un qualcosa del genere potesse comportare: dal temere di perdere quello che aveva bene o male funzionato fino ad allora, allo stordimento della ragione che avevamo notato nelle sette americane, in un certo esoterismo del sabato pomeriggio (al quale sarebbe stato facile sostituire un buon parrucchiere), al cameratismo economico dei massoni.


Pensavamo agli “incensi di Dior” di certi nostri amici New Age, che vivevano circondandosi di auree e “cose positive” giusto per non accorgersi, in realtà, di essere morti. E da un bel pezzo, anche.


Io, personalmente, guardavo con estrema diffidenza gli incontri di alcuni dei miei amici, dall'improvvisa metamorfosi che essi avevano subito, del cambio radicale dei valori. Anche perchè ad un certo punto sembrava che anch'essi volessero convincersi di stare sulla strada giusta.


La Strada, come la definiva una mia cara amica.


Ma di questo, sarà bene parlarne poi.


In realtà quella notte c'eravamo tutti.


Io tornavo da uno dei miei lunghi viaggi, nel quale s'era perso, per l'ennesima volta, l'amore della mia vita, che in quel momento si chiamava Armida, una longilinea biondina con gli occhi d'ulivo, incantata, più che dalle mie ricerche sull'essenza, da una reale proposta di matrimonio di un sedicente ingegnere.


E fortuna a chi se ne va”, in fondo, pensai.


Oddio, questo lo penso ora, più razionale e sornione, magari, mentre allora me lo dicevo per convincere, in primis, me stesso.


Ma sono ancora preamboli, quasi a cercare di mettere a fuoco quale fosse il mio stato d'animo d'allora (perchè certa razionalità deve essere ingannata, raggirata, addormentata, per ricordare le verità scomode), se davvero uno stato d'animo potesse influenzare quello che ho visto con gli occhi e ho sentito con gli altri sensi. E i sensi allargati. E non solo io.


Tornavo, quindi, da un viaggio, e si erano riuniti intorno a me i miei compagni d'avventura di sempre, Gabriele e Maurizio. E un amore ritrovato, Maria, una donna con con cui, da sempre, c'era una perfetta identità culturale, una grande sensibilità, anche una grande attrazione e, come per tutte le menti complesse, una certa voglia di perfezione.


E per questo, spesso, ci lasciavamo per lunghi periodi, fino a poi ricercarci, in un certo senso delusi dai modelli che il nostro acerbo ego ci imponeva di cercare, speranzoso di trovare in un corpo, in un fascino animale, quello che in realtà solo l'anima profondamente anelava. Ma talmente pazzi che, come un naufrago affamato che trangugia avidamente il pasto del salvataggio si rimette rapidamente in mare, cercavamo nuovi lidi da esplorare, nuovi sentimenti di perfezione per coronare un desiderio che poi avremmo capito, nostra culpa, essere solo capriccio e schiavitù.


Eravamo tornati sulle mie colline.


Ed era quella notte, una notte di dicembre, straordinariamente chiara e limpida. Con la luna imperiosa che illuminava a giorno i fili d'erba ricoperti di brina, che brillavano come diamanti in un prato di ombre e luci, un paesaggio fatto di silenzio, di un dolce freddo, di rimandi all'infinito.


Su quelle colline, dove c'era il vecchio casale abbandonato.


Il casale abbandonato che era l'alcova segreta mia e di Armida. Dove consumavamo i nostri pomeriggi d'amore. Dove ci nascondevamo dal mondo, accompagnati da un po' di focaccia, e talvolta da una bottiglia di buon vino e, stesa una coperta sulla nuda roccia che era il pavimento dell'ultima stanza di quel casolare che altro non era che un immenso corridoio, ci dimenticavamo dei ritmi del mondo di fuori, e vedevamo, dalla porta di quel rifugio ancestrale, lo scorrere delle stagioni sulla collina di fronte.


E prima il bosco era scuro, poi si riempiva d'erba verde e sempre più rigogliosa a far da tappeto agli abeti, per poi riempirsi di laghi rossi di papaveri d'estate, fino a ritornare come il campo di grano sottostante, dorato e maturo. E profumato. Di un profumo così forte che ti annebbia i sensi come una droga.


Eravamo tutti e quattro incantati ad osservare la luna. E ad ascoltare il silenzio.


Io mi allontanai un attimo, a ritrovare quella stanza, l'ultima del casolare, che tanto mi ricordava.


Perchè dell'amore serbiamo il ricordo, sempre, e tendiamo, dopo, a cancellarne la tristezza, la mediocrità, i compromessi di un rapporto ormai finito, per godere del profumo della bellezza di quel grande e splendido equivoco che è spesse volte l'essere innamorati.


La porta della stanza era uno stipite di pietra viva, senza infissi, senza nulla a delimitare l'esterno con l'interno.


Eravamo dei pazzi, in fondo, ad appartarci in un luogo così solitario e così poco protetto.


Ma tant'è, che l'amore è cieco. E pazzo. E non può essere altro che così.


Quella sera la luce era talmente tanta, che un riverbero d'argento si stagliava intorno alla porta, come a definire uno stipite virtuale.


E il buio dentro pareva solido. Più che solido, a dire il vero, lo sentii gommoso: come una parete semipermeabile, una specie di porta nera di gelatina, di gomma, di qualcosa che divideva sensibilmente la calma dell'esterno col buio infinito dell'interno.


Non ero stato mai così attratto e così impaurito al tempo stesso da una simile situazione.


Posai le mani, proprio come fanno i mimi, sulla porta immaginaria.


E sentii il buio.


Lo sentii con le mani: freddo, gelatinoso, avvolgermi le dita, poi le palme, di quella sensazione gommosa di gelo.


Quel muro c'era, c'era davvero, ero portato a credere.


Al solo ricordo, brividi mi percorrono il corpo, inesorabilmente.


Anche ora, nell'apparente tranquillità di quella che reputo una vita diversa.


Affondai ancora le mani, quasi per squarciare quello che sembrava uno di quei velli di pelle che coprivano gli usci di certe case di qualche secolo fa. Feci pressione, e le mani entrarono. Vi entrò anche lo sguardo, sentendo sul viso la sensazione del buio.


E risentii ancora di più l'essenza materica del buio: è come un velo, una presenza statica. Una pressione fisica che senti addosso, sulla pelle. Da provare, semplicemente, se non si ha niente da fare. Ma nel mio caso non fu così piacevole.


Dopo aver squarciato quel velo, provai la sensazione di essere osservato. Due enormi occhi, simili a quelli di un serpente, si aprirono terrificanti nell'oscurità nera. Una figura alta forse due metri, scheletrica, con la testa che ricordava un pipistrello, le spalle in un certo qual modo possenti, con lunghe braccia che terminavano con mani lunghissime, con lunghe dita e ancor più lunghe e terrificanti unghie.


La figura non proferì parola, né si espresse con altri suoni. Mi comunicò contemporaneamente un senso di terrore, totale terrore, e un quasi un senso di derisione per il mio essere uomo, il mio essere semplicemente mortale.


Non avevo bevuto, né ero e sono solito consumare alcuna droga. E, sinceramente, non credetti ai miei occhi. Ma la sensazione “addosso” era assolutamente reale.


Non proferii parola con i miei amici. E tornai da loro per rimanere in piacevole compagnia di tutta la bellezza che ci circondava. Tranne in quella stanza, in quella terrificante e maledetta stanza.


L'ora si fece tarda, ci riavviammo verso la città. Salutai Maurizio e Gabriele e rimasi in compagnia di Maria.


La sensazione era strana. Mentre parlavo con la donna che aveva accompagnato la mia adolescenza, ripensavo all'addio repentino di Armida, e a quello che accadeva tra di noi, nella stessa stanza in cui avevo visto quella creatura.


E capii ad un certo punto il senso di “derisione”, fortemente collegato all'assenza di Armida.


Ora mi sembrava strano mescolare un evento così drammaticamente strano con una storia d'amore, ma i sentimenti erano quelli.


Stranamente, sentivo pulsare dentro di me una serie di onde d'energia, come se mi sentissi una specie di superuomo, una creatura al confine tra l'umano e il demone.


E in quel momento dirigevo la mia rabbia, tutta terrena, verso chi mi aveva trafitto il cuore. E mentre discutevo con la mia dolce amica, intravedevo il mio sguardo nello specchietto dell'auto... e vedevo non i miei occhi, ma gli occhi gialli e tremendi di quella creatura, e le mani, le mie mani, trasfigurarsi in quegli arti orrendi e mostruosi.


Sentire quel potere era spaventoso e inebriante al tempo stesso. Era come cavalcare un sogno ad occhi aperti, come avere tra le mani la forza del mondo. Sicuramente nera, sicuramente bassa, sicuramente primordiale. Ma quando sei dalla parte dei grandi, non ti interessa perchè combatti. Ad un certo punto sei sicuro di vincere. E questo ti basta.


Il fenomeno, si ripeteva ad intervalli pressochè regolari. E mi chiedevo se stessi sognando o cosa.


Ad un certo punto, incrociai lo sguardo con Maria mentre sentivo quell'energia. Lei si spaventò. Si allontanò e si schiacciò contro lo sportello. Vidi il terrore nei suoi occhi, e, stranamente, ne fui quasi felice.


La parte razionale di me le chiese:


Ma cosa sta succedendo?”


E lei:


Le tue mani... hanno le unghie...”


E scappò via.


I giorni successivi furono strani.


Mi rendevo conto che qualcosa era successo davvero, che non era un sogno, un déjà vù. Un qualcosa che di fatto trasformava la mia visione del mondo da un fondamentale determinismo a un provvidenziale possibilismo.


Tutto poteva accadere.


Ma in tutto questo percorso, iniziato quasi per gioco, non ero più solo: c'era questa presenza ossessionante, tremenda. Questo mostro che mi accompagnava in ogni attimo di solitutine, appena mi distraevo dalle vicende quotidiane e il mio pensiero tendeva a qualcosa di più alto.


Non sapevo chi fosse, cosa fosse, cosa volesse da me. Mi attraeva e mi respingeva. Mi piaceva il potere. Mi terrorizzava il sapere d'essere di fatto sfruttato da qualcosa che si nutriva del mio dolore, della mia ira, della mia delusione.


Chiamai Armida. Era stata male, malissimo, durante tutta la notte. Ad un certo punto mi sentii in colpa. Ero stato io. Ero stato io? ma che stavo pensando? ma davvero esistevano quelle cose assurde? davvero quello che leggevo forse per pura curiosità intellettuale esisteva realmente?


Che fosse la personificazione di una fantasia, accaduta in un momento di stress non poteva di certo essere. L'avevamo visto in due. E, forse, sentito in tre.


Dovevo capire.


Il pomeriggio del sesto giorno mi vidi con Gabriele. Lui era, negli studi esoterici, ad un certo punto più avanti di me. Stava frequentando la cerchia esterna di un gruppo iniziatico isiaco, di fatto qualcosa di un po' più della religione cattolica. Un po' più intenso della cosidetta “via umida”. La via più comoda e lenta per il raggiungimento dell'eterno: tante vite e un passetto per vita. La “via secca” era quella diretta. Quella che, secondo i saggi, ti avrebbe portato, in questa vita, alla visione materiale del Divino.


Ma questi pensieri erano palliativi. C'era un problema. E serio.


Raccontai l'accaduto. E le teorie fioccavano. Cos'era? forse un eggregoro, una creatura generata dalla forza del pensiero (e nel caso dell'amore e del sesso il pensiero è carico d'energia, e tanta), quindi un giovane cucciolo che si nutriva della stessa nostra energia, squisistamente sessuale, un cucciolo che aggredisce il padrone che non lo nutre più.


E quella cosa era successa.


Decidemmo di tornare in quella stanza. Erano passati sei giorni, e la luna era ancora luminosa.


Durante il viaggio, ci raccontammo tutte le possibili forme di quello che poteva essere. Ricordammo di come gli dei vengono creati da generazioni di preghiere degli uomini, fino a diventare esseri più grandi e intelligenti degli stessi creatori. E finivano per curarsi di loro, proteggerli, farli star bene.


E come quando si entra in una chiesa: l'eggregoro lì presente ti fa star meglio, in cambio della forza generatice dell'onda di una preghiera. E di come questa forza fosse più presente nelle chiese più antiche, che più antico era l'eggregoro, che in quelle moderne, dove la giovinezza della creatura era ancor più limitata dalla freddezza delle moderne costruzioni, agghiaccianti accozzaglie di cemento, vetro e ferro, frutto della fantasia di architetti che dell'essenza divina non avevano neanche il ricordo.


Dopo Gaudì e il suo Tempio, convenimmo, non ci sono più state le grandi cattedrali.


Ma quest'essere era troppo potente. Pareva fosse il drago che scalciava il cavaliere che voleva domarlo.


Era, in un certo qual modo, quello che avrei conosciuto e identificato solo più tardi leggendo Zanoni, un libro del Buwler: il Guardiano della Soglia, un demone a guardia del mondo del sovrumano, dal sinistro e tremendo compito: quello di spaventare i temerari e incauti visitatori che, senza adeguata preparazione, si avventuravano oltre i limiti del reale.


Fino a sedurli con un misterioso “lato oscuro”?...


Semplicemente le energie più negative sono quelle più diffuse, più basse, più inebrianti.


E' più facile sporcare che nettare, pensammo.


Arrivammo al luogo. La notte era tranquilla, tranquilla come quella di qualche giorno prima, che aveva incrinato senza speranza di ritorno la mia concezione del reale.


Entrammo nella stanza, ci sedemmo per terra. Ci rilassammo. Gabriele aveva una torcia, per farci luce.


Gambe incrociate, schiena dritta. Respiro costante e controllato.


Spegnemmo la torcia, e sentimmo di nuovo la cappa del buio scenderci addosso avvolgendoci nel suo molle lenzuolo.


Ad un certo punto, una sensazione di freddo mi percorse la schiena. Alla mia destra, di lì a mezzo metro, avevo Gabriele, ma era come se non ci fosse.


Aprii gli occhi. Era lì, nell'angolo. Era apparso nel tutto il suo orrore.


Mi entrava dentro, come se tra me e lui ci fosse un ponte d'energia.


Mi zittii. E ripetetti tutti quegli esercizi che avevo fatto negli ultimi giorni per scacciare quella sensazione di potere, di forza, che la presenza di quest'essere comportava e accompagnava. E sentivo che mi consumava irreversibilmente.


Non so come, davvero, vinsi io.


Scomparve.


E riapparve la presenza di Gabriele.


Il freddo si era miracolosamente trasformato in una brezza tutto sommato tiepida.


Non ci rivolgemmo parola.


Nella strada tra i campi, attraversò una volpe, davanti a noi.


Gabriele disse:


Ad un certo punto non ti ho sentito più”.


Neanch'io” risposi.


Era andata comunque bene.


Gli eventi si succedettero lenti e rapidi allo stesso tempo. Io tornai con Maria, con tutti i problemi che il nostro rapporto estremamente conflittuale comportava. Ma le gioie dell'amore umano mi avevano fatto dimenticare, in gran parte, quello che era successo. Ad un certo punto era come se avessi, semplicemente, sognato tutto.


Non sapevo se mi fossi rialzato da una caduta della ragione, o fossi precipitato giù da un cielo che stavo conquistando.


Ma non mi interessava.


Nel frattempo Gabriele e gli altri procedevano nei loro studi. Avevano incontrato un “maestro”. Io, personalmente, sentivo una costrizione nel pensare in un certo modo, nell'allonanarmi da quelle che consideravo le mie passioni, per andare incontro ad una realizzazione che, in fondo, non riuscivo pienamente ad intravedere, sebbene ne leggessi gli effetti su coloro che qualche tempo prima avevo considerato miei compagni di vita.


Qualcun altro, semplicemente, mi disse: “Ognuno ha i suoi percorsi. Tu è come se già fossi sulla Strada”.


Ad un certo punto, la comitiva si ruppe, si sciolse. Il “Maestro” aveva fatto esplodere, ad un certo punto, le individualità nella maniera più esasperata. Il sentirsi “sulla Strada” di alcuni, faceva perdere il rispetto verso chi, sulla Via, non c'era. Almeno secondo loro. O secondo i voleri del “Maestro”.


Secondo la scuola esoterica egizia, il discepolo non doveva fare domande, ma seguire il maestro. Ora, il maestro perfetto non esiste, e spesso l'essere veicolo di bellezza porta a pensare che sempre e comunque siamo oracoli del Dio.


Non dovete badare al cantante, diceva qualcuno. E non era neanche maestro. Ed è un difetto di molti.


Ma ci stiamo perdendo.


Come io persi volontariamente Gabriele, Armida, Maurizio e Maria, tutti, tranne Armida, persa nei meandri delle vicissitudini, tutti incantati da questo sedicente quanto sospettoso e infido personaggio.


La vita mi coinvolse con le sue vicissitudini: l'amor borghese, il lavoro, qualche umana passione... finchè il solito bisogno di qualcosa di nuovo si fece irresistibilmente e irrimediabilmente sentire.


Come se una parte di me non sopportasse a lungo andare una serie sempre crescente di mediazioni, di estrema normalità.


Ed esplose. Perchè una certa libertà, una certa ricerca della bellezza non si compra con un mutuo in banca.


E qui la chiave di volta della mia vita. Perchè non è facile spiegare cosa significa sentire dentro la tensione dell'infinito, sentire cosa significa avventurarsi in sentieri non percorsi, i pericoli e i meandri della mente e, sopratutto, della coscienza.


E la difficoltà è fare sì che tutto questo si sposi armoniosamente con le cose che devi fare tutti i giorni per vivere.


Senza essere annullati come quando ti affidi ad una persona che credi un Dio e che poi, magari, finisce arrestata, come un uomo, anzi come un criminale qualsiasi, per chissà quali traffici.


Perchè il potere che deriva dal fascino dell'infinito è grande. E, se quando indichi la luna, il volgo idolatra il dito, forse non è neanche tutta colpa tua.


O avrei potuto, alla fine, riempirmi la vita di cose.


L'azione è nemica del pensiero, si dice.


Riempirmi di gabbie, di scelte, imponendomi semplicemente di non spingermi mai al confine di ognuno dei mondi vivibili. E visibili.


E non vedere mai il limite. Per credere che la piccola felicità è l'unica possibile.


Ma non funziona esattamente così.


Mi resi conto, semplicemente, che abbiamo effettivamente, un'anima, un corpo, una essenza fatta a strati, a compartimenti, a fette.


Una parla direttamente con il divino, l'altra ricorda le epoche e le stagioni. Un'altra ancora s'invola nel turbine delle emozioni, l'ultima resta schiava dei compromessi della terra.


E' che la nostra essenza ad un certo punto della vita manca d'equilibrio. Noi siamo ognuno di questi strati, compartimenti e fette. Siamo portati a viverli, o a subirli, tutti. E lo facciamo tutti, indistintamente dalle scelte di vita, filosofiche o religiose.


Li visitiamo come Dante visita l'Inferno, il Purgatorio e il Paradiso.


Ma manchiamo di memoria.


E dell'Inferno non ci lamentiamo del clima, ma semmai dell'eterna ripetizione dell'errore.


Ora sto facendo esercizi, per la memoria.


Con il leggero sorriso di chi sa, e che al tempo stesso non sa. Perchè più ti avvicini al confine dell'infinto, più il confine si allontana.


E sarà il reale, o l'irreale. Ad affascinarmi ancora. Con parole sempre a metà. Necessariamente a metà.


L'unico modo è ricordare. Perchè l'infinito è fatto di tanti tasselli. Perchè ogni cosa al mondo ha la sua parte di infinito. E le mezze parole si congiungono. Con altre mezze parole. Per formare quelle parole infinite che descrivono concetti che non sono più umani.


Ricordare che non ci sono solo angeli e nuvole, ma demoni e fiamme. E non hanno solo la forma delle incisioni del Dorè, ma sono terreni, e reali. E visibili.


E quei demoni lentamente uccidono il bambino, l'anima bambina, che vede gli angeli nelle nuvole.


Sempre.


E quel bambino lo uccidiamo tutti i giorni. Perchè è intelligente. Perchè è sensibile.


Perchè è sincero.


E noi non sopportiamo più la sincerità.


Perchè sa essere felice.


E noi non sopportiamo più nemmeno la felicità.


Ricordare.


Come un metodo. Perchè, in fondo, fa assai comodo avere negli occhi la felicità e la grandezza di chi parla con l'essenza divina mentre tratti con l'uomo, tuo simile, di umane faccende.


Ricordare.


Come un metodo. Ricordare di avere capacità di mediazione e senso della relatività e dell'umorismo, tutti umani, mentre si discorre del piu', del meno, dell'eterno, dell'immenso, con un qualche Dio.

4 commenti:

  1. grande........ l'ho visto nascere sto racconto...

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  2. ...a un certo punto neanche io ti ho sentito più...

    bello...

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  3. Ma è tuo? Bello, proprio bello.

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  4. @maltese

    già. saranno stati i wurstel in carrozza della signora all'angolo...



    @cruna72

    ...succede. e non solo nei racconti.



    @spazzola

    i racconti sono come i figli. E credo di accorgermi se sono i miei.

    Del resto, sai, se cito, metto le virgolette.

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