giovedì 17 marzo 2011

Archetipi



workplace


Una foto dello studio in cui passo parte delle mie giornate e che, da un certo punto di vista, è un archetipo di un certo mio modo di essere.





Entriamo del dettaglio (questo post è una specie di sputtanamento. Con me stesso, innanzitutto).





Ovviamente è una specie di loft. Un mega magazzino. Un antro laboratorio. Se non fosse per la pompa di calore sopra di me d'inverno e un provvidenziale megaventilatore d'estate, sarebbe invivibile.





Sessanta metri quadri. Se fossi single, ci metterei la branda, e buonanotte.





(Da sinistra)





Parte di gonna di abito da sposa, appeso. L'altezza del locale consente lo stoccaggio temporaneo senza che le code tocchino per terra.



Io con la sposa ci sono nato. Mia nonna ha cominciato nel '22 (millenovecentoventidue, un secolo fa), a giocare con i ghingheri. Produceva fiori di seta e tante altre cosettine carine.



A quattro anni mi aveva insegnato a montare le rose.



C'erano dei pistilloni enormi fatti d'ovatta, filo di ferro e colla vinavil annacquata che facevano da centrale. Poi si montavano i petali, tranciati con la seta, col raso, con l'organza e poi formati a caldo con gli stampi di bronzo e i torchietti a mano. Nonna mi raccontava che prima della pressa a maglio i petali si tranciavano su un ceppo a mazzolate. E c'era un operaio, Nicola, una specie di troll alto un metro e cinquanta ma largo tre, con le braccia di un metro di diametro l'una che mazzolava dalla mattina alla sera. E poi modellava i piedi dei portafedini col filo di ferro... sui pollici. E la dimensione era impressionante. Per non parlare della precisione. Nicola aveva l'hobby del ferro battuto. S'era fatto le inferriate di casa sua, e una bellissima aquila. E io me lo immaginavo mentre lavorava, che batteva il ferro a caldo, che fondeva... e nella mia mente di bambino me lo figuravo più o meno come Vulcano che forgia le spade dei semidei.



Due petali per il bocciolo, due per la corolla, uno a rovescio per creare contrasto, un baffetto o ragnetto di organzasvizzera (Nonna diceva "organdisvizzero", tutto una parola, che pareva Gustav Toheni, ma diceva anche "sterl" per "stereo" e "compiurtl" per "computer", una sorta di gergo dissacrante, la propria autodifesa ironica contro le inside della modernità).



Un goccetto di colla su ogni petalo, e il montaggio avveniva delicatamente come un dolcetto in pasticceria. Oltre l'odore di quella colla, quella leggera ebbrezza quasi alcoolica, quel profumo di "fare" che mi accompagna ora ogni qual volta lo senta. E giocare con le dita, con la colla e le dita, senza paura di sporcarsi perché Nonna ti diceva: basta che non ti metti le mani in bocca. (Che come norma di comportamento ha una certa validità generale.)





Sfondo nero. Studio fotografico con set semi-pronto.



Io la fotografia l'ho conosciuta a 18 anni. Comprai una Pentax P30, una dozzina di pellicole, e partii per una inter-rail di un mese. Io, lo zaino, la Pentax, il manuale. E sperimentai persino le pose B, persino di giorno, con le persone che sembravano ectoplasmi sullo sfondo fermo, o di notte, per fotografare i menhir a Carnac, sotto la luce della Luna, un sasso come cavalletto e il pollicione come scatto flessibile.



Poi, al contrario dei facebookisti che fotografano se stessi in pose sempre uguali e sempre ridicole, io di foto mie ne ho davvero poche.



Ma scatoloni e scatoloni di foto d'altro e d'altri.



Cronache e racconti.



Perché fotografare può essere sia raccontare una storia che accade, sia raccontare una propria storia attraverso il taglio delle storie che vedi.



Quelle costruite, le faccio per lavoro. Ma quello è altro.



Qualche volta ho immaginato un elmetto, un paio d'occhiali, una cosa impiantata nell'occhio che mi permettesse di fermare i particolari lì dove si posasse il mio sguardo.



Altre volte ho lasciato che queste immagini, senza macchina, fossero fotografate unicamente nella memoria. Salvo poi ripescarle per raccontare qualcosa, o riconoscere l'analogia in quanto stia vedendo ora, di quanto sia sotto gli occhi, come se avessi un libro di profezie.





Il mezzo manichino e il poster controluce con modella.



Io con le modelle avevo un rapporto conflittuale.



Ma solo perché non avevo capito ben bene l'utilizzo del mezzo (la modella è un manichino evoluto) e avevo una concezione romantica della fotografia, il feeling che doveva crearsi tra soggetto e fotografo, tutte cose che avevo imparato degli scritti di Cartier-Bresson.



Ma non dovevo raccontare la guerra civile.



E poi, essendo un generoso, ero solito abbinare alle belle fattezze anche un certo piglio intellettuale.



Ma se una donna è silenziosa, non è per forza misteriosa. Può anche non avere un benamato nulla da dire.



Soltanto che all'inizio a parlarci con uno di questi curiosi esemplari umani non ero quasi mai solo, ma accompagnato da due rumorosissimi compari, Testo e Sterone, due lestofanti che mi traviavano dalle velleità sicuramente artistiche, tutt’al più sentimentali. Mai comunque eccessivamnete lubriche.

Un'infanzia difficile, ai parametri d'oggi, possiamo vantarla tutti. E il conseguente desiderio di riscatto.

Basta spostare un po' l'attenzione su se stessi e non si ha più il bisogno, per avere qualcosa di decorativo al braccio, di una bella tricotillomane. Al limite, si investe su un orologio di marca che, oltre ad essere un bene durevole, risponde anche ad alcune delle domande fondamentali dell'ontologia: che ora è, che giorno è (e da qui si capisce davvero la profondità di Mogol/Battisti e il loro passo avanti nei valori della modernità).



Poi è stato facile divertirsi a guardare assistenti ed amici fare commenti sui soggetti, subendo idonee ritorsioni da parte delle legittime. Perché nulla agli uomini è permesso, neanche la fantasia.



Com’era? Pensieri, parole, opere ed ommissioni. Che ora si pecca più d’ommissioni che di altro, a pensarci bene.



Ma tralasciamo. E parliamo del controluce, che brucia i particolari e conferisce alla scena un quadro con un tocco di divino. Oppure, come raggi X, svelano le velleità, le piccolezze, le meschinità (E che ho detto prima? che son gli uomini meschini, mica gli Dei).





Tavolo ingombro.



E’ una mia carattteristica. Riempio superfici orizzontali.



Così mi definì una mia ex fidanzata che pare faccia l’architetto. “Tu hai bisogno di superfici orizzontali da riempire”. E lì Testo e Sterone fecero battutacce travianti, come sempre. Ed io, davanti a cotanta conoscenza, rimasi incantato. In realtà, ci sono manuali e manuali, e un paio d'esami su come sparare queste frasi ad effetto. Quelli del CePu hanno una specie di Baci Perugina con le cartine con le frasi ad effetto. In ambo i casi vanno direttamente in parcella.



La mia bambina me lo ripete gratis ogni giorno, invece.



Pare che sia sintomo d’intelligenza. Di capacità d’analisi. Me ne fotto. E’ mancanza di disciplina, al limite. Non avrò la capacità d’ordine maniacale del serial killer, e ne sono contento, ma non ho mai visto uno che non fosse miliardario di nascita essere così casinaro.



E poi, si sa, la caratteristica fondamentale del truffatore è quella di avere le proprie cose ordinate. Per sguazzare nel casino altrui.



A diciotto anni avevo una Fiat Uno, talmente improbabile che la chiamai Heisenberg. E il capello incolto.



A ventiquattro mi calai una bellissima duemila superaccessoriata. E un completino di grisaglia grigio in stile D’Alema.



I capelli rimasero incolti.



Le quotazioni salirono.



Del resto l’ordine è la giustificazione della schiavitù. Ma fa sempre una bella impressione.





Lo scaffale e l’appenderia.



Sono la salvezza. Ordine rapido e tutto sotto controllo. Ma occorrono i grandi spazi.





Stampante Canon.



E qui comincia la parte informatica. Non presenti nella foto, per ragioni squisitamente ottiche: portatile, casse, secondo monitor, hub, mouse, hard disk esterno, pila di documenti, portaschifezzerie vario (ex portapenne), svariati cellulari.



Che uno piano piano da questo marasma comincia a venire fuori e a prenderne le distanze.





Perché uno poi alla fine con la virtualità ci gioca.





Perché, diciamolo, la Recherche, in fondo, ha tante cose in comune con Facebook.





(La vera cosa bella, è che non saprete mai cosa c’è dall’altra parte della stanza).


4 commenti:

  1. ti ho conosciuto così e sei rimasto così....sei un Grande è inutile! P.

    RispondiElimina
  2. @P. Grande e inutile, appunto :D



    @Paris. Olè!

    RispondiElimina
  3. Grande, strepitoso post da cui mi pare di poter trarre le seguenti conclusioni:

    1) Sei figo come John Galliano ma non sei ricchione (e ciò agevola l'alzamento dello share);

    2) Questo blog dovrebbe chiamarsi Profumo di Vinavil ed altre droghe pop;

    3) Il problema di vederci qualcosa d'altro non ce l'hai solo con le modelle (anche se domandarsi cosa si nasconde dietro una zeppa in sughero è atto di amor patrio, ne convengo...);

    4) Sei un vero tesoro d'uomo. Ed in caso di divorzio, almeno offri la possibilità di pignorarti la Reflex. C'è gente cui tocca pignorare le tazze di Zia Palmina, e quelle ostacolano l'InterRail...



    Ps: Io lo so cosa c'è dall'altra parte.

    Il tavolo dove sezioni vive le modelle che, alla parola Heisenberg, ti dicono che no, loro al massimo son state a Monaco di Baviera.

    RispondiElimina
  4. Rispondo con piacere a questo entusiastico commento punto per punto (tanto Google vuole 10 minuti di tempo per centrifugare le nuove regole della campagna AdWords).



    - Grazie per il grande e lo strepitoso. Siamo qui per questo.



    1) John Galliano non è ricchione. E' Gay. Wladimir Luxuria è ricchione. Galliano, Armani, Elton John sono gay. E questo alza il loro di share. Galliano è pure sul mercato. Come tra poco, se la crisi avanza,  lo sarò io. Solo che batteremo strade diverse, diciamo.



    2) Grazie per il suggerimento, terremo presente. Il sale avevamo e quello abbiamo usato. Poi ci siam fatti la spigola.



    3) Quando c'è gusto non c'è perdenza. E poi il passato è passato. (Rosso di sera buon tempo si spera?)



    4) Quando un ufficiale giudiziario armato di precetto incontra un fotografo armato di reflex, l'ufficiale giudiziario avrà qualcosa da nascondere...

    Le tazze non erano di Zia Palmina. Erano di Roberto Cavalli (cozzalissime), e mie, dopo avergliele pagate.

    E datemi una interrail ora... altro che ostacoli. Faccio perdere le mie tracce anche a Martina Franca...



    - Dall'altra parte...

    RispondiElimina