lunedì 3 ottobre 2011

A viver di fiaba

a viver di fiaba




"Scatta un buon negativo e puoi farne quello che vuoi. Se devi aggiustarlo in camera buia, è meglio che cambi mestiere"

(Nino B., il mio maestro alla "bottega" di Fotografia) *



Leggendo i commenti di Celestechiaro mi sono venute in mente alcune cose che, anzichè risposte in linea, che sembrano polemiche che lasciano il tempo che trovano, forse meritano un po' di spazio (così magari uno si diverte a commentare ancor più analiticamente. Oppure può, come il 99 per cento degli internauti, slumacarsi su Facebook).



A parte il simpatico paradosso di Zenone, considerando che nè Achille nè la tartaruga sono esseri infinitesimi ma hanno una massa e una dimensione, e che alla fine Achille riesce a farsi la sua zuppa di tartaruga... ho sempre pensato alla fotografia come una necessità espressiva: un mezzo attraverso il quale tagliare la realtà e raccontare un'emozione, un guizzo di vita, una storia. Magari tutt'altra cosa dal soggetto. Perchè ogni cosa ha molteplici significati, come ogni nostra cellula contiene il DNA per creare infiniti cloni di noi stessi.



Io credo nel pensiero laterale, in quella capacità che ha la nostra mente di agire parallelamente e quali autonomamente su vari argomenti: mentre ci si concentra alla guida (senza prendere pali, ovviamente), la mente spazia in analisi e congetture, oppure, e a me funziona sempre, l'idea "globale", la "visione d'insieme" di un qualcosa che sto studiando mi appare all'improvviso "pronta all'uso" mentre distraggo l'altra parte della mente con qualcosa di futile, dalla programmazione, al fotoritocco, al cazzeggio puro sulla rete. (Questa parte è poco didattica).



Ad esempio, oggi, facendo ordine sull'hard disc interno del pc per far spazio al nuovo lavoro in corso, ho ritrovato questo "buon negativo", scattato durante una gita lo scorso anno. Volevo un po' di scatti che mi dessero le luci del bosco. Ovviamente, il ricordo del bosco che volevo riprodurre era un altro: un pomeriggio di venti anni fa, passato quasi per caso nelle luci basse che balenavano tra le chiome più fitte di un bosco sul Gargano, o, qualche anno più tardi, i chiaroscuri dei miei pomeriggi tra un appuntamento di lavoro e l'altro, in Calabria, ad esplorare la parte "selvaggia" della Statale 106, quella che da Coundufuri Marina si arrampica sull'Aspromonte, col bosco da una parte e il mare dall'altra, e serpeggia per sessanta chilometri fino a Locri, che ti sembra di aver attraversato l'Amazzonia... per la bellezza, la solitudine, la luce... e l'immenso tempo che ci impieghi.



Lì c'era "Visioni" di Alice a tenermi compagnia, a ricordarlo bene.



Ora ho preso uno scatto, ben bilanciato, ho contrastato, ho aggiunto quella luce che mi ricordavo, ho tolto quella parte di cielo che avrebbe dato fiato ad un raggio invece magico e totalizzante, aggiunto qualche barbaglio, un po' di flare... e poi ho discusso col capo della nuova campagna pubblicitaria, proprio bastata sulle dream photo.



Ora, non è che sia venale, per carità...



Però...



E' che spesse volte ho desiderato avere negli occhi stessi una macchina, un obiettivo, una pellicola, per immortalare certi particolari che partono dal "presente e vivo" e arrivano giusto alle "porte dell'infinito".



Ho avuto la fortuna di ricordare queste emozioni. E di riporovarle ancora quando ho avuto il tempo, la possibilità, la volontà di fermarmi e di fermarle.



L'emozione è unica e molteplice. E a fotografarla, perdonatemi, non si ruba l'anima.



Si condivide l'infinito.



Ciao Giacomino.



[In questa immagine sono "taggate" con la memoria le seguenti foto non fatte: la finestra di Casa Leopardi a Recanati, in gita scolastica dell'88, la Sila Piccola all'altezza di Taverna di Catanzaro nel 1994, il Bosco di Vico del Gargano nel 1996, e una corsa in un posto che non ricordo, ma dovevo avere sei o sette anni, il Giardino dei Gelsi alla Villa della Zia Maria nel 1975, la luce a Castel del Monte, tutte le volte che ci sono stato, un certo bosco in una località imprecisata del Nord della Scozia, nel 2001 - di cui si sono tristemente perse tutte le tracce - la villetta al mare, a San Girolamo, di Zio Gino e Zia Annarella, e quello strano e lunghissimo giardino, e lo Zio che mi toglieva le scarpe e mi faceva giocare con la sabbia nella spiaggia artificiale nel lido di fronte... e diceva a mia madre "e fai giocare il bambino!"... Doveva essere il '74. E già mia madre rompeva professionalmente i cabbasisi al pianeta...]



(*) Una volta un "fotografo" quando ho citato il "maestro che mi ha insegnato a fotografare"... ha storto il naso, adducendo che la fotografia non si impara. L'arte è innata, è vero. Però la dimestichezza col mezzo si impara con la pratica. Tutti siamo teoricamente in grado di fare tutto (tranne alcune aree del PdL, tipo Brunetta, diciamo). Però se quando dovessi vedere un tramonto fossi costretto a leggermi d'un fiato il manuale della Canon farei davvero notte. E poi non s'è imparato come a scuola ("Chi sa, fa. Chi non sa fare, insegna", dicevano i latini). L'avere qualcuno che, come i sacerdoti egizi, si "lascia guardare" mentre lavora, è un gran risparmio di tempo. Il resto, fa i servizi alle prime comunioni a centocinquanta euro, se gli va bene.


martedì 20 settembre 2011

Meglio di qualunque pubblicità

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Senza alcun dubbio, la Vita è meglio di qualunque pubblicità.

Sebbene stiano facendo di tutto per convincerci del contrario.



[Foto di AP, matrimonio di un Amico, Canicattì, 2011]

lunedì 12 settembre 2011

A tempo perso

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C'è stato un momento della mia vita in cui vivevo davvero con la macchina fotografica, quella a pellicola.

Avevo una Pentax P30T manuale, qualche obiettivo, un paio di Metz a torcia, un cavalletto, una Fiat Uno 45, diciannove anni, molto tempo a disposizione e nessuna preoccupazione per il futuro se non i drammi esitenziali tipici dell'età.



Mi piaceva fotografare le persone, discretamente. Usavo le pellicole bianconero ad alta sensibilità, per svanire dietro un teleobiettivo, o ritrarre i piccoli movimenti delle ombre, nelle luci della sera. Adoravo Henri Cartier-Bresson, ed ero convinto che il taglio della fotografia donasse alle persone quell'alone di perfezione che trascende la realtà. Un po' come la musica nella Nausea di Sartre.



Oppure aspettavo che mietessero il grano sulle colline lucane, e poi bruciassero i campi. E l'odore del grano bruciato, di pane, di natura, di ricordi ancestrali: valeva la pena di arrivare fino lì.



C'era pochissimo Photoshop, anzi, per nulla. C'era la ripresa, lo scatto, la composizione, l'esposizione. Avevo un set completo di filtri da applicare PRIMA di scattare una foto.



C'era la camera buia. E il contrasto con la qualità della carta, del viraggio, della mordenzatura. E sapevo calcolare il tempo di stampa giusto guardano il negativo. Come quando si assaggiano gli spaghetti e si pensa: tra venti secondi sono perfetti.



A sapere che mi sarei guadagnato da vivere così, magari, avrei perso meno tempo.



Perchè le cose da cogliere sfuggono. E, spesso, non ritornano più.



Il resto è marketing.


giovedì 8 settembre 2011

Lost in translation

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Domani scatto il servizio istituzionale per la stagione 2012, e oggi con il "Grande Capo" prepariamo il set. Stiamo simulando una sfilata, quindi prospettiva, sfondo, quinte, bianco e nero, e tanto, ma tanto TNT (tessuto non tessuto, per i non addetti ai lavori), che i miei sapienti flash trasformeranno in una autentica passerella. Almeno quelle sono le intenzioni.



"Ndruzzuleisc!!!" grida ad un certo punto il Grande Capo. Ha settantatrè anni, e va ascoltato.



Vi giuro. Io parlo inglese, italiano, gocce di francese (tre, come quelle dello Chanel numero cinque che indossava Marylin per andare a letto).

Volendo anche latino.



Ovviamente, il cozzalo bitontino (che per certi versi mi apre la via alla comprensione del tedesco e ho tutte le gutturali per parlare correttamente l'arabo).



Ma il dialetto stretto di Castellana, un termine così tecnico, subito subito... è fuori d'ogni umana comprensione.



("Ma 'o core sape scrivere?

'O core è analfabeta,

è comm'a nu pùeta ca nun sape cantà.

Se mbroglia... sposta 'e vvirgule...

nu punto ammirativo...

mette nu congiuntivo

addò nun nce 'adda stà...

E tu c' 'o staje a ssèntere

te mbruoglie appriess' a isso,

comme succede spisso...

E addio Felicità!

Eduardo)

 



[Foto di AP, grazie allo stabilizzatore della Canon 60D, e ad un nuovo piacere di tagliare il vero]


giovedì 1 settembre 2011

Pausa pranzo


pausa_pranzo

 



Pausa pranzo. Oggi.



Sono anni che ci passo davanti. E non mi sono mai fermato.



Tre cancelletti, tre lucchetti. Non so quindi per chi o per cosa apriranno mai questo posto.



Dovrebbero aprirlo per la memoria.



Sembra un video di The Final Cut dei Pink Floyd, Waters che ricorda tutti gli orrori della guerra, e i sogni di grandezza infranti.



Cantava: "Tieni duro, John, dobbiamo continuare così!".



Già.



E a voler togliere i cipressi, le bandiere, i cannoni... questo resta.



E questo caldo insopportabile, la luce in perpendicolo.



E sarebbe davvero il caso di impacchettare i fantasmi del passato, gli orrori, gli errori che tornano negli incubi (perchè dura il tormento finchè dura la colpa, diceva Borges), perchè appunto, alla fine, questo resta.



E non c'è manco un fiore.


martedì 24 maggio 2011

Nuove risorse per ricamare

corallinil




Dopo aver dato fondo agli Swarovski...



E' che certe volte uno deve fermarsi, aspettare che le idee gli tornino, prenderla meno sul serio e magari ridere un poco. Anche se non c'è veramente molto da ridere.



Ho proposto lo slogan: COLLEZIONE 2012... LA FINE DEL MONDO...


giovedì 12 maggio 2011

Tentazioni

forchetta

Ci sono i grandi drammi del mondo, le cose inspiegabili che accadono nella nostra vita e, naturalmente, gli "accidenti" o "incidenti", quelle cose che oltre a non sapermi spiegare, non so neanche prevedere.



Ma vogliamo discutere della parmigiana di melanzane?



(Foto AP, forchetta galeotta. La parmigiana di melanzane, come una brava massaia, l'ho preparata ieri sera. Ed è fuori campo. Per poco, troppo poco.)

martedì 10 maggio 2011

Un buon incassatore

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"Tu sei un buon incassatore" mi disse una volta una persona che credevo amica, in una fase un po' turbolenta della mia vita.



Sono un buon incassatore. E' vero. Ho pazienza. Più che pazienza uno stoico principio di sopportazione. E, forse, credo di sapere dove voglio arrivare. E credo di aver imparato a valutare le mie forze, e quanta energia investire per arrivare a qualcosa.



Sono un buon incassatore. Avevo l'abitudine, data da una certa "sensazione di chissà quale superiorità" (semplicemente si chiama irresponsabilità), di passare sopra le cose. Di non chiarirle subito. Era come se per eccesso di democrazia, però, permettessi alla gente di oltrepassare, in varia misura, il limite del mio personale.



Ma non si può sempre dimenticare e perdonare. Perchè, tanto, non serve. Se l'altro ripetutamente ricade nell'errore. Perchè se l'eterna ripetizione dell'errore è tipica dell'Inferno, qui siamo ancora, fortunatamente, sulla terra.



Perchè poi esplodo, come una pentola a pressione.



Perciò, cara signora delle pulizie, che ti aggiri per l'azienda come un orsetto lavatore (orsetto lavatore prossimo al quintale, direi)... sappi che nascondere i cestini dei rifiuti ad uno che è già di suo disordinato, è veramente un colpo basso.



(Foto AP, "parte" della sua scrivania perennemente incasinata).

giovedì 5 maggio 2011

Finzioni

rosaromal




Sarà... ma certe volte ho l'impressione che siamo davvero noi ad immaginarci tutto... come se quando abbiamo fatto certe cose, certe scelte, quando abbiamo vissuto situazioni abbiamo avuto davvero il prosciutto davanti agli occhi.



Perchè a voler vederle da una certa distanza.... son come le rose rampicanti.



Sottili, eroiche... e maledettamente lontane.



(In realtà son tutti discorsi miei... "certe cose", "certi eventi", "certe situazioni". Meglio non dire. Però mi sarebbe piaciuto esserci in altra forma... per prendermi a calci. Ma alle soglie dei quaranta è bello volere così bene al proprio passato. Calci compresi. Del resto, poteva andarci anche peggio, tipo che avrebbe potuto piovere.)



(Rose rampicanti a Roma, fuori Santo Stefano Rotondo. 2003. Che era meglio stare da un'altra parte... che è stato come per gli Americani andare in Vietnam: alla fine ci si è rimesso... e ci si è fatti solo un sacco di film.)


domenica 27 marzo 2011

Segnali di vita

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Sono convinto che la pastella abbia una componente metafisica. Indipendentemente dalle melanzane.

sabato 26 marzo 2011

Di Grande Teatro

ppio

Quando ero più giovane ero sostenitore delle architetture pure. Mi piaceva l'idea di Brasilia, la città costruita dal nulla direttamente nel futuro.

Oppure immaginavo Madre Natura riprendersi le città ricoprendole di rami e piante.



Poi ho scoperto il reportage, il raccontare le emozioni attraverso i tagli nella visione delle persone.



Ma un teatro è davvero grande se l'opera è perfetta con i propri spettatori. Che diventano teatro a loro volta.



Qualcuno disse E=mc².



E tutti furono felici e contenti.

venerdì 25 marzo 2011

C'è Tempo

reggio03

"Dicono che c'è un tempo per seminare

e uno più lungo per aspettare

io dico che c'era un tempo sognato

che bisognava sognare."

Ivano Fossati, C'è tempo.



Reggio Calabria, Lungomare.

Sfondo, Sicilia.

Nuvole di Nostro Signore.



L'HDR, a dispetto di Photoshop, è mio.



E uno può scegliere se incazzarsi per aver atteso due ore l'apertura di un negozio per non vendere nulla, o di aver avuto la possibilità, il tempo e la voglia di guardare un poco più in là.



(Alle spalle, i palazzi del lungomare di Reggio, ricostruiti in stile liberty dopo il terremoto del 1908. Se da una disgrazia comunque la vita rinasce, chissà cosa faranno in Giappone.)

martedì 22 marzo 2011

Quante vite hai vissuto?

campo_dei_missili2

Tre, no, no, quattro.



(Foto AP, Campo dei Missili, poligono abbandonato nel Parco Nazionale dell'Alta Murgia. Oggi dicono sia coltivato a frutta. Fantasia. Così come tante parole in questi giorni.)

venerdì 18 marzo 2011

I cancelli della memoria | gates of memory

gatesofmemory

Ciao Marcel(*)!

(Gesto dell'ombrello)



(Commento molto legato al post precedente. Effetti deleteri della colla vinilica, probabilmente.)



(Ma che belle foto fa il Nokia. Più che altro, con che tempismo!)

--



(*) dedicato all'autore della Recherche, il "tempo perduto" della mia estate della terza liceo.

giovedì 17 marzo 2011

Archetipi



workplace


Una foto dello studio in cui passo parte delle mie giornate e che, da un certo punto di vista, è un archetipo di un certo mio modo di essere.





Entriamo del dettaglio (questo post è una specie di sputtanamento. Con me stesso, innanzitutto).





Ovviamente è una specie di loft. Un mega magazzino. Un antro laboratorio. Se non fosse per la pompa di calore sopra di me d'inverno e un provvidenziale megaventilatore d'estate, sarebbe invivibile.





Sessanta metri quadri. Se fossi single, ci metterei la branda, e buonanotte.





(Da sinistra)





Parte di gonna di abito da sposa, appeso. L'altezza del locale consente lo stoccaggio temporaneo senza che le code tocchino per terra.



Io con la sposa ci sono nato. Mia nonna ha cominciato nel '22 (millenovecentoventidue, un secolo fa), a giocare con i ghingheri. Produceva fiori di seta e tante altre cosettine carine.



A quattro anni mi aveva insegnato a montare le rose.



C'erano dei pistilloni enormi fatti d'ovatta, filo di ferro e colla vinavil annacquata che facevano da centrale. Poi si montavano i petali, tranciati con la seta, col raso, con l'organza e poi formati a caldo con gli stampi di bronzo e i torchietti a mano. Nonna mi raccontava che prima della pressa a maglio i petali si tranciavano su un ceppo a mazzolate. E c'era un operaio, Nicola, una specie di troll alto un metro e cinquanta ma largo tre, con le braccia di un metro di diametro l'una che mazzolava dalla mattina alla sera. E poi modellava i piedi dei portafedini col filo di ferro... sui pollici. E la dimensione era impressionante. Per non parlare della precisione. Nicola aveva l'hobby del ferro battuto. S'era fatto le inferriate di casa sua, e una bellissima aquila. E io me lo immaginavo mentre lavorava, che batteva il ferro a caldo, che fondeva... e nella mia mente di bambino me lo figuravo più o meno come Vulcano che forgia le spade dei semidei.



Due petali per il bocciolo, due per la corolla, uno a rovescio per creare contrasto, un baffetto o ragnetto di organzasvizzera (Nonna diceva "organdisvizzero", tutto una parola, che pareva Gustav Toheni, ma diceva anche "sterl" per "stereo" e "compiurtl" per "computer", una sorta di gergo dissacrante, la propria autodifesa ironica contro le inside della modernità).



Un goccetto di colla su ogni petalo, e il montaggio avveniva delicatamente come un dolcetto in pasticceria. Oltre l'odore di quella colla, quella leggera ebbrezza quasi alcoolica, quel profumo di "fare" che mi accompagna ora ogni qual volta lo senta. E giocare con le dita, con la colla e le dita, senza paura di sporcarsi perché Nonna ti diceva: basta che non ti metti le mani in bocca. (Che come norma di comportamento ha una certa validità generale.)





Sfondo nero. Studio fotografico con set semi-pronto.



Io la fotografia l'ho conosciuta a 18 anni. Comprai una Pentax P30, una dozzina di pellicole, e partii per una inter-rail di un mese. Io, lo zaino, la Pentax, il manuale. E sperimentai persino le pose B, persino di giorno, con le persone che sembravano ectoplasmi sullo sfondo fermo, o di notte, per fotografare i menhir a Carnac, sotto la luce della Luna, un sasso come cavalletto e il pollicione come scatto flessibile.



Poi, al contrario dei facebookisti che fotografano se stessi in pose sempre uguali e sempre ridicole, io di foto mie ne ho davvero poche.



Ma scatoloni e scatoloni di foto d'altro e d'altri.



Cronache e racconti.



Perché fotografare può essere sia raccontare una storia che accade, sia raccontare una propria storia attraverso il taglio delle storie che vedi.



Quelle costruite, le faccio per lavoro. Ma quello è altro.



Qualche volta ho immaginato un elmetto, un paio d'occhiali, una cosa impiantata nell'occhio che mi permettesse di fermare i particolari lì dove si posasse il mio sguardo.



Altre volte ho lasciato che queste immagini, senza macchina, fossero fotografate unicamente nella memoria. Salvo poi ripescarle per raccontare qualcosa, o riconoscere l'analogia in quanto stia vedendo ora, di quanto sia sotto gli occhi, come se avessi un libro di profezie.





Il mezzo manichino e il poster controluce con modella.



Io con le modelle avevo un rapporto conflittuale.



Ma solo perché non avevo capito ben bene l'utilizzo del mezzo (la modella è un manichino evoluto) e avevo una concezione romantica della fotografia, il feeling che doveva crearsi tra soggetto e fotografo, tutte cose che avevo imparato degli scritti di Cartier-Bresson.



Ma non dovevo raccontare la guerra civile.



E poi, essendo un generoso, ero solito abbinare alle belle fattezze anche un certo piglio intellettuale.



Ma se una donna è silenziosa, non è per forza misteriosa. Può anche non avere un benamato nulla da dire.



Soltanto che all'inizio a parlarci con uno di questi curiosi esemplari umani non ero quasi mai solo, ma accompagnato da due rumorosissimi compari, Testo e Sterone, due lestofanti che mi traviavano dalle velleità sicuramente artistiche, tutt’al più sentimentali. Mai comunque eccessivamnete lubriche.

Un'infanzia difficile, ai parametri d'oggi, possiamo vantarla tutti. E il conseguente desiderio di riscatto.

Basta spostare un po' l'attenzione su se stessi e non si ha più il bisogno, per avere qualcosa di decorativo al braccio, di una bella tricotillomane. Al limite, si investe su un orologio di marca che, oltre ad essere un bene durevole, risponde anche ad alcune delle domande fondamentali dell'ontologia: che ora è, che giorno è (e da qui si capisce davvero la profondità di Mogol/Battisti e il loro passo avanti nei valori della modernità).



Poi è stato facile divertirsi a guardare assistenti ed amici fare commenti sui soggetti, subendo idonee ritorsioni da parte delle legittime. Perché nulla agli uomini è permesso, neanche la fantasia.



Com’era? Pensieri, parole, opere ed ommissioni. Che ora si pecca più d’ommissioni che di altro, a pensarci bene.



Ma tralasciamo. E parliamo del controluce, che brucia i particolari e conferisce alla scena un quadro con un tocco di divino. Oppure, come raggi X, svelano le velleità, le piccolezze, le meschinità (E che ho detto prima? che son gli uomini meschini, mica gli Dei).





Tavolo ingombro.



E’ una mia carattteristica. Riempio superfici orizzontali.



Così mi definì una mia ex fidanzata che pare faccia l’architetto. “Tu hai bisogno di superfici orizzontali da riempire”. E lì Testo e Sterone fecero battutacce travianti, come sempre. Ed io, davanti a cotanta conoscenza, rimasi incantato. In realtà, ci sono manuali e manuali, e un paio d'esami su come sparare queste frasi ad effetto. Quelli del CePu hanno una specie di Baci Perugina con le cartine con le frasi ad effetto. In ambo i casi vanno direttamente in parcella.



La mia bambina me lo ripete gratis ogni giorno, invece.



Pare che sia sintomo d’intelligenza. Di capacità d’analisi. Me ne fotto. E’ mancanza di disciplina, al limite. Non avrò la capacità d’ordine maniacale del serial killer, e ne sono contento, ma non ho mai visto uno che non fosse miliardario di nascita essere così casinaro.



E poi, si sa, la caratteristica fondamentale del truffatore è quella di avere le proprie cose ordinate. Per sguazzare nel casino altrui.



A diciotto anni avevo una Fiat Uno, talmente improbabile che la chiamai Heisenberg. E il capello incolto.



A ventiquattro mi calai una bellissima duemila superaccessoriata. E un completino di grisaglia grigio in stile D’Alema.



I capelli rimasero incolti.



Le quotazioni salirono.



Del resto l’ordine è la giustificazione della schiavitù. Ma fa sempre una bella impressione.





Lo scaffale e l’appenderia.



Sono la salvezza. Ordine rapido e tutto sotto controllo. Ma occorrono i grandi spazi.





Stampante Canon.



E qui comincia la parte informatica. Non presenti nella foto, per ragioni squisitamente ottiche: portatile, casse, secondo monitor, hub, mouse, hard disk esterno, pila di documenti, portaschifezzerie vario (ex portapenne), svariati cellulari.



Che uno piano piano da questo marasma comincia a venire fuori e a prenderne le distanze.





Perché uno poi alla fine con la virtualità ci gioca.





Perché, diciamolo, la Recherche, in fondo, ha tante cose in comune con Facebook.





(La vera cosa bella, è che non saprete mai cosa c’è dall’altra parte della stanza).


mercoledì 2 marzo 2011

Concatenazione di eventi

alfano

Intelligenti pauca:



Alfano, Fratelli, Berlusconi, Processo, Lodo, Datteri, Gheddafi, Pelati, Mercato, In Scatola.



E poi non si può non dire... "più di mille parole".

mercoledì 16 febbraio 2011

Misteri.

6x3

L'Indimenticabile entra in camera da letto dove sono slumacato orizzontalmente con il pc in equilibrio sull'addome mai tartarugato...



I: "Ma qui si sente un odore strano..."



AP: "Ti giuro che ho fatto la doccia!" (Sindrome di Homer)



I: "No, è che sarò io che sono allergica... sensibile agli odori... pure di là nello studio..."



AP: "Dici che sono quelle vecchie carte?"



I: "Veramente sono i calzini della bambina incollata a Facebook..."



AP: "..."



(E' colpa di Facebook, lo so. Che uno 'ste cose le spara sul social network e magari ha quei sette secondi di notorietà. Ma, si sa, il blog è per sempre).



(Foto di AP, l'unico 6x3 di Castellana Grotte, ambito come l'ufficio in centro a Manhattan).